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Cena familiaris

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Leon Battista Alberti

XV secolo Indice:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. I, 1960 – BEIC 1723036.djvu letteratura letteratura Cena familiaris Intestazione 18 settembre 2008 75% letteratura


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II


CENA FAMILIARIS

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[Interlocutori Battista, Francesco e Matteo Alberti]



Matteo. Se mai a me parse vero, quanto si dice che el buono appetito rende la cena ottima, certo qui ora questo mi pare verissimo, e così stimo affermeranno questi giovani, quali eccitorono ancora in me maggior voglia di fare come loro con più alacrità e voluttà

Francesco. Contrario anzi, la affabilità e lo eccitare l’uno l’altro a festività ragionando sempre fu summo e ottimo condimento del convito. Che ne dici tu, Battista?

Battista. Pur come voi. Alle cene quello che presta molta voluttà nel cibo si è la fame. A’ nostri animi in tutta la vita, come dissero alcuni dotti, niuno instrumento, niuna arte musica si trova suave quanto il ragionare fatto insieme de’ cari amici. E vuolsi per satisfare al convito, prendere di ciò che vi s’appone con voluttà, e recrearsi insieme con iocundità e pronta festività. E così loderò in ogni cosa secondo e’ tempi, luogo e faccenda, che vi s’adoperi quanto li conseguitin le forze.

Matteo. Adunque aremo da non lodarti, Battista.

Battista. Duolmi; e questo perché?

Matteo. Perché in questa nostra cena facesti né l’uno né l’altro: quasi nulla cenasti, e meno favellasti. E piacemi testé con queste parole averti eccitato a riso e ilarità. E così fà; queste tue cure litterarie, quali tengono te sempre occupato, repetira’le altrove.

Francesco. Come non ti ricordassero e’ costumi suoi! Battista di sua natura raro se non provocato favella, e per [p. 346 modifica]uso lungo suole spesso intermettere ancora intero il dì senza gustar cibo. La prima ragion della sanità consiste in conoscere e osservare quello che suole o nuocere o giovare e indi moderarsi

Battista. Niuna di queste, niuna. Ma rimirando or l’uno or l’altro di questi nostri nipoti, in me i’ ne pigliava meco tacito gaudio e contentamento, riconoscendo in loro e’ liniamenti e movimenti e aria dei nostri frategli, loro padri. Vedoli di presenza e aspetto abili, non immodesti, e spero saranno in ogni laude simili a’ nostri maggiori, e degni vero appellarsi Alberti. Vuolsi rendere grazia a Dio e laude a loro. Certo e’ nostri Alberti furono, - quale sia la cagione non è forse a me bene nota quanto io vorrei, e forse qui ora non è luogo da riferirla, - certo furono pregiati e amati persino da chi non li conoscea se non per nome, onde a noi altri ancora ne resta buona commemorazione e grazia.

Matteo. Anzi in prima, e qui e in ogni presenza della nostra gioventù, sarà da investigare qualunche ragione l’adirizzi a satisfare di dì in dì più a pieno alle nostre espettazioni e desiderii, quando per carità e debito noi siamo loro padri e moderatori; e così loro iranno quinci da te vero convitati, cioè pieni di ricordi e ammonimenti, atti a bene reggersi in vita con felicità. E per non perdere questa occasione attissima al nostro offizio, mi pare di riferire qui a tutti insieme quello che a ciascuno appartiene assiduo ricordarsi. Udite, giovani Alberti, udite da noi quali fussero le cagioni onde e’ nostri passati furono amati e pregiati, e affermate in voi con ogni studio e diligenza imitare ogni loro instituto e ragione di tradursi a buona grazia e fama. Una delle cagioni fu el numero degli uomini Alberti, la abundanza delle facultà, lo assiduo acquistarsi, ben faccendo e giovando a molti, gran numero d’amici. Queste cose, quali e quanto e come si trattino e governino, assai lo mostrò più fa Battista ne’ suo libri de Familia. Ma quello che molto mi piaceva inne’ nostri passati, e giudico che fussi ottimo aiuto a bene aversi, fu l’uso familiare e assidua conversazione e concatenata [p. 347 modifica]fratellanza fra loro insieme piena di carità e iusto offizio; come veggo qui oggi Battista, dandoci essemplo di sé, pari vorrebbe vedere da noi. E così faremo; imiteremo e’ nostri maggiori, quali niuno dì vacava che essi non convenissero insieme, conferivano delle cose oneste e delle cose atte al bene della famiglia. Era fra loro el nome Alberto pari a una loro repubblica; curavanla, correggevanla con ogni vigilanza e circuspezione. L’uscio di qualunche di loro, l’animo, lo onore, ogni cosa era fra loro commune e quasi proprio, sì ad uso, sì a governo e mantenimento. Chi amava uno, sentiva sé accetto per questo a tutti gli altri; chi forse offendeva qualunche etiam minimo fra loro, dispiaceva a tutti, e massime a chi più sapeva e valeva. Pensate voi, o figliuoli nostri; come può essere una famiglia in bene e non mal felice, dove questa amorevolezza e ragione di conformarsi insieme non sia? Ove potrà una famiglia essere urtata, quando questa volontà e consenso a tutti commune sarà in animo con opera e prontezza bene confirmata?

Battista. Io spesso mi maraviglio, quando vidi in alcuna famiglia tanta, non dico solo ignoranza, ma inetta ostinazione di gareggiare, massime per acumulare a sé qualche parte di peculio e levarlo da chi per molte ragioni questo doveva presso di lui essere commune; onde poi asseguìta la impresa, trovorno perdita maggiore che vittoria. Qualunque in ogni istoria mai volse conducere cosa alcuna degna in republica, sempre in prima dede somma opera di multiplicarsi fautori e conspiratori. La natura dede alle famiglie ottimo fra loro e proprio vinculo, sopra tutti fermissimo: questo fu la vera e dovuta consanguinità, onde fussero contro a’ casi avversi più muniti, e dalle ingiurie de’ pessimi meno offesi. Tu contenzioso preferisti uno piccolo transitorio emolumento a tanta fermezza d’ogni tua fortuna e bene, e violasti la religione e santità della innata fratellanza. Chi traprenderà essere a te amico, quando tu ricusi essere amato da’ tuoi, quali amerebbono te, se tu amassi loro? Quale sarà fra’ cittadini sì infimo che stimi te, e non pigli ardire a noiarti quando e’ ti vegga [p. 348 modifica]recusato e negletto da’ tuoi? E’ nati piccinini raffrenano e perturbano a’ grandi l’ardente imprese contro di te de’ tuoi invidi e avversarii. Questo perché? Certo perché essi intendono che la vera e natural coniunzione fra quelli che sono d’uno sangue e nome allevati insieme fa che quello che duole e muove l’uno, in tempo ancora muove tutti gli altri; pàrli adonque cedere piuttosto che tirarsi adosso ruina da tante parti. E così sono e’ ben collegati con vera benivolenza, non iniuria, temuti da’ nimici, e sono pari amati e seguiti da chi per loro spera migliorare e salvare suo stato.

Francesco. Chi dubita che questa counione e naturale confederazione sempre fu utile e necessaria alle famiglie? Che più? Sola la dimostrazione de essere d’uno animo tutti insieme e d’uno volere, gli fa pregiare e riverire, quando bene fussero discordi. Ma spesso interviene che bisogna non fare poca stima delle sustanze sue, onde facile insurgono lite. E vedemmo qualche volta alle famiglie che simulare fra loro dissidio in casi avversi ne salvò parte.

Battista. E’ mi soviene, e parmi verissimo, tra’ vicini, tra la moglie e ’l marito, tra’ frategli, mai sarà dissensione, purché uno di loro sia savio. Le gravi e dannose discordie crescono quando ambo loro sono male consigliati. Le contenzioni delle borse non hanno per sé forza di contaminare gli animi moderati. Chi per cupidità e gara le farà capitali e convertiralle in odio, sarà stoltissimo. Consigliarei si chiamassero certi amici, quali da voi intendessero e fra loro dicidessero la causa, e voi omnino lungi fuggissi commutare insieme parole contenziose. Del contendere surge gara, della gara ostinazione, della ostinazione ingiuria, della ingiuria iurgio e rissa e arme. E conoscesi che nello uso civile sono due tempi varii, l’uno quando alla famiglia si cerca nuova amplitudine e dignità, l’altro quando ella si trova fra e’ pochi ne’ primi luoghi onorata. Forse sarà non inutile fra ’l numero de’ maligni per imminuire invidia, mostrarsi in ogni cosa meno potere e meno valere che tu non puoi. Ma se la città fia retta da’ buoni, e più poteranno le leggi che le [p. 349 modifica]volontà, certo el bene fare tanto sarà più glorioso, quanti più insieme concorreranno a fare pur bene.

Matteo. O Dio! che questo succedesse! Ma in quella terra se oggi ne fusse alcuna simile a quelle antiche nominate, dove ogni cosa publica più era venale che le private, ove da’ primi anni e’ cittadini quasi come in una scola imparorono e continuo osservorono essere varii, e in ogni cosa perseverorono dar parole fuori contrarie alla volontà intima, e fare senza verecundia niuna delle cose promesse, quale omo sarà sì stolto che non tema parere buono fra loro, o instituisca essere dissimile dagli altri?

Battista. Vedi, Matteo, io sono certo che tu sempre volesti e vorrai essere più simile a’ buoni che a’ non buoni. Felicissima, giocondissima commemorazione poter dire a sé stessi: cognoscomi che io sono buono. E se ad alcuni animali come al camello non piace bere l’acqua se prima e’ non la intorbida, sappi costui che tempo l’aspetta, ove sofferirà molta e lunga sete; ma come chi navica, mutati e’ venti, mutate le vele, e seguite altra dirittura se questo corso vi porta a porto, cioè a quiete e onesto ozio: dove questo non segua, racogli e statti summo e sicurissimo dove tu adirizzi e’ tuoi concetti; fàtti bene volere da’ tuoi, da’ cittadini e da tutti con buone arti e aprovata integrità. La umanità e facilità e probità porgono scala e ale a superare in cielo.

Matteo. Udisti voi giovani, udisti voi?

Francesco. Dirò pure forse più che non richiede questo luogo. Di molte cose si ragiona, e non si negano a parole; quali se fussero infatto meno dificili, ei! quanto sarebbe la vita e condizione de’ mortali ancora meno misera. Fra’ savii e pazzi, fra’ buoni e ’ mali, fra’ ricchi e’ bisognosi, fra i tiranni e’ subietti non patisce la natura che benivolenza vi sia stabile, se fra loro non è quello che li componga e tenga insieme. Bisógnavi qualche condizione per la quale minuendo all’uno e acrescendo all’altro, fra loro seguiti parità; e se a me non pessimo fia necessità usare e contrattarmi con molti, dei quali tu conosci e’ loro pensieri, vita e fatti, bastaramm’egli quanto [p. 350 modifica]che tu dici? Che può uno buono mutare di sé, se non in peggio?

Battista. Secondo il fine che tu proponi, almeno fia mutabile la volontà, non da bene a male, ma da soffrire piuttosto incomodo che turpitudine. Io persuasi a me già più tempo, che invero a’ buoni nulla possa nuocere se non tanto quanto diventassino meno buoni. Più ferma e certa cosa ène la salvezza che porge Idio a’ buoni, che non sono gli odii fra quegli che tu racontavi. Ma torniamo onde facemmo digressione. Dicesti, Matteo, che l’uso de’ nostri familiari insieme con carità fu gran cagione a fargli pregiare; così pare anche a noi, se già qui Francesco non fussi in altra sentenza.

Francesco. A me pare il simile, ma sopratutto e’ buoni costumi acquistarono loro molta grazia. Io posso affermare questo; mai fu famiglia in questa nostra città più costumata, e forse per questo in prima fu ben voluta e nominata.

Matteo. Ben dici il vero, ed è così, e dobbiancene gloriare e proporci d’essere simili a loro. Che direte? Era per Italia ridutto in proverbio; quando voleano approvare in alcuno la molta umanità e prestanza de’ lodatissimi costumi, diceano: "costui è tale come se fussi nato e allevato fra gli Alberti".

Battista. E merito. In prima furono e’ nostri osservantissimi della religione e reverentissimi a’ loro maggiori.

Francesco. Per confirmare el ditto tuo, Altobianco mio padre spesso mi referiva che per darsi quanto e’ doveva simile a’ sua maggiori, mai volle essere veduto sedere in publico presente messer Antonio cavaliere suo fratello e gli altri, dei quali uno è qui dottore e nel numero de’ cherici con offizii publici in degnità non ultimo; mai presente, non dico alcuno padre e capo di famiglia, ma più, presente Lionardo, o Benedetto suo fratello consubrino per età maggiore, mai fu veduto asedersi. E così noi tutti sempre rendemmo reverenza a’ maggiori come a’ padri, e così loro amorono sempre noi come figliuoli.

Battista. Qualunque non inetto sia e bene allevato, [p. 351 modifica]senza dubio conosce che questo gli è debito e somma laude. Chi rende onore ad altri, acquista onestamento a sé, ecco la ragione. Quello incorretto giovane non fece il debito suo con degna reverenza verso el padre, quanto da lui richiedevano gli altri cittadini. Quel biasimo di chi fu? Non di colui a chi non fu renduto a dignità, ma tutto e solo di chi non satisfece all’officio suo. Tu, contro, contribuisti a chi meritava onore; fu pari tutto tuo, non d’altri, lo onestamento e lode. Ben sapevo io che ’l mio rizzarmi, scoprirmi, ovviarli, salutarli, non portava a que’ miei alcuna cosa per quale essi dovessino riferirmene merito, altroché rallegrarsi conoscendo che chi vedeva in me quella osservanza e officiosità, mi riputava degno d’essere amato; e mancando in me quello che mi si richiedeva, m’era dagli altri biasimo, e da me stessi rimordimento.

Francesco. Que’ tuo Romani in ogni cosa mal corretti, oggi molto errano in questo; stimano e’ padri meno ch’e’ suo vicini, e quinci crescono con molta lascivia e vizii.

Battista. Ben per questo costituirono que’ popoli, quali s’e’ suoi minori sino a certa età peccavano, e’ magistrati punivano il padre, gastigavano e’ precettori che non li corressoro in tempo.

Matteo. Questo bisognerebbe oggi in questa nostra città; sarebbono meno linguacciuti, più escogitati, meno insolenti, più moderati nelle voglie loro; fuggirebbono l’assedio e corruttela de’ viziosi, da’ quali depravati imparano essere ghiotti, inverecundi, giucatori, e senza alcuna riverenza o timor del biasimo. Ed ècci tanta copia e sì pronta e petulante di questi seduttori, ministri e maestri di tutte l’arti pessime e malificii, che per loro rari giovani crescono senza turpitudine.

Francesco. Ben dici el vero. Omini pestiferi, fraudolenti, impronti, importuni, sfacciati, assediano la gioventù, e più nuoceno a questi nominati uomini da bene che a’ plebei e men fortunati, quanto presso di loro trovano più che rapire.

Battista. Io udiva questo che tu di’ fuori di qui; ora in presenza non vorrei vederlo, troppo mi perturberebbe. Dura [p. 352 modifica]faccenda moderare la gioventù, vero, ma io in ogni altra cosa sarei con loro facile e indulgente, purché fussero non sfrenati e simili a quelli che sdegnano e’ maggiori, e ostinati credono solo a sé, e curano solo satisfare alle voglie sue. Non gli potrei riputare da bene, sendo non buoni e costumati. Chi dirò io che sia da bene? Colui che merita grazia, favore, aiuto, laude e ogni bene. Chi merita ricever questo? Lo immodesto? petulco? lascivo? inonesto? temerario? arrogante? temulente? scelerato? Certo no. Quello che tu concederai a uno putido gaglioffo, sarà scritto alla tua umanità più che alla necessità di colui. Ma uno vizioso indomito, quale solo oda, creda e diesi a quelli suoi confederati seduttori, degni d’ogni suplicio, costui non merita essere guardato dalla plebe, nonché riputato fra gli omini da bene. E se vizio alcuno in qualunque età e stato si trova dannoso, certo questo dagli antichi chiamato alea, come sono carte e dadi, sempre fu perniziosissimo. Qual prudente non ricuserà ne’ suo traffichi uno giucatore? Pel giuoco chi acquistò mai altro che nome di fraudolente e fabricator d’inganni? Del giuoco viene niuno piacere, grave perdite, molestissime cure e infestissima sollecitudine, assidue perturbazioni. Tu, Francesco, alcuna volta ti dilettano mie simili perquisizioni e invenzioni. Vedi, pregoti, quanto facci a proposito. Fingo che qui sia uno giovane giucatore incorretto. Dimmi, figliuolo, se sul nostro ponte fussi un furioso, quale commosso ad ira graffiasse, mordesse chi se gli apressò, e io dicessi: "spoglia e’ panni tuoi e io e’ miei, leghia’gli insieme e stimularemo questo furioso; a cui di noi e’ farà peggio, costui torni nudo a’ suoi, e restino e’ panni tutti al compagno", - pigliaresti questo partito? Che, Matteo, se uno tale giovane qui fussi, che credi risponderebbe?

Matteo. E’ mi pare quasi scorgere da lungi dove tu intenda capitare, e risponderotti per lui. Ma prima fammi el partito compiuto. Se l’uno di noi ricevessi picchiate pari all’altro?

Francesco. Ritorrebbe ciascuno e’ suoi [p. 353 modifica]{{nop}{

Matteo. Ben dici. Adonque rispondo, non lo pigliarei

Battista. Perché no? E poi aresti e’ miei e insieme aresti e’ tuoi.

Matteo. Anzi, tu aresti le tue picchiate e io le mie. E chi mi sicura che io torni sanza perdita, nonché con guadagno?

Battista. Prudente risposta, e se vi penseremo, troveremo che ’l giuoco, simile a uno di quelle furie poetiche, ancora incende furore in chi se gli dia. E parvi poco furore? Giuocano dove a caso soviene loro, spesso su qualche desco sordido e puzzulente, in luogo alioquin frequentato, né si curano essere veduti e biasimati da molti. E’ primi furono certi ribaldi: concorsevi numero di vilissimi mercennarii: questo nostro omo da bene, nato per essere ornamento della patria, ma per corruttela degli scelerati disviato e dedicato al giuoco, subito dimentica sé stessi, e vinto e tratto dalla miseria sua, non si può contenere, mescolasi in quel fastidio: surgonvi altercazioni, vedesi da lunge el tumulto, odonsi voci e parole pazze, odiose, bruttissime: concorre la plebe e biasima chi più erra, e sempre da’ savii e da e’ men savii per più rispetti in quella colluvie sarà più vituperato chi fia per el nome de’ suoi meno degno d’essere veduto in tale errore fra loro. Aggiugni che dal ponte e dal furioso si partiranno subito che vederanno el suo male. Questo giucatore mai si parte dal giuoco se non ultimo superato, e partirassi forse dal ponte colui coll’occhio enfiato e livido, colla bocca e denti, colla gota e orecchi stracciata, col petto tutto percosso, cose, non nego, dannose maisì al corpo; ma pel giuoco la parte in noi più da curarla molto più patisce; perduta la recognizione del debito suo, non cura sé stessi, sotterrasi nel vituperio, non vedendo quel che ne seguiti a quella brutezza, ma tumido di cupidità, livido de invidia e concusso qui e qui da varie essagitazioni d’animo, ora per ricuperare quello che è perduto, ora per acrescere la vincita, - che posso io dire altro? - arabbia, e così come prima precipitò sé stessi in questo male, così doppo la calamità senza niuno utile urta sé stessi con acerbissimo pentimento. [p. 354 modifica]

Francesco. Rispondi Matteo, tu che traprendesti farvi risposta. Pàrti che Battista dica el vero? Paionti diletti questi nel giuoco da seguirli, o crucciamenti da fuggirli?

Matteo. E chi ne dubita? Essecrabili, da biastemarli. Ma io potrei dire che molti in la sua gioventù pure allettati parte da avarizia, parte dalle insidie e assedio de’ corruttori, cominciorono el giuoco solo per piacere, e poi col tempo talora si ramendorono e liberoronsi da quella servitù.

Battista. Farannolo se in loro poterà parte alcuna di ragione e vero conoscimento. A questi bisogna solo diliberarlo, e fuggire luoghi e persone e occasioni onde seguinti simili errori, e darsi ad altri onesti spassi, o a quelli mestieri onde con più certezza e buona grazia e’ satisfaccino alla cupidità, acumulandosi con onestà giusto peculio. Del giuoco, fra tanto numero di barattieri, non caverai uno o forse un altro, che non resti mendico pel giuoco e invecchi svilito e nudo. Questo onde avvenga, non è oscuro a discernerlo. Non riesce al giuoco la ’mpresa, parte per sua propria natura, parte per quello che doppo al giuoco ne seguita. Ecco, tutti noi qui useremo convenire insieme a giuoco: trovansi questo dì fra noi fiorini mille: ciascuno di noi propone e studia, quanto in sé sia, vincere. Dimmi, onde persuadesti tu che a te più che a me seguiti vincita, se in te non sarà qualche arte fraudolente e apparecchio atto a ingannarmi? Potrò forse risistere alla fraude di questo uno, ma se due o più faranno setta insieme contro me, che potrò io? Nulla. Ma e’ modi con che uno solo può rubarme al giuoco, chi mai gli raconterebbe? Lasciamo adietro gli altri giuochi in quali sono infinite decezioni e tradimenti (raro fu giucatore non prono e pronto a essere traditore), ma diciam solo de’ dadi. In questi, circa la materia del dado, questa parte d’osso e stucco grave, quest’altra lieve, giunte insieme e poste con accuratissimo artificio; certi punti posti due volte in uno dado, in un altro niuna; a questi una faccia aspra o bene spianata e bene angulare, quest’altra tersa, liscia, curva cogli angoli quasi tondi, onde bene posson dire, come colui giucando: «el tuo nonne [p. 355 modifica]el mio indugia a rivenire». Agiugni l’artificio della mano; scambiano e’ dadi, rinfondano e scemano le poste con prestezza di mano e coperto furto. Insomma tutto el giuoco non ama altro che fraude, tradimento e preda. Lodasi per questo quello di cui si dice che diede al figliuolo suo per ogni altro modo inemendibile, maestri espertissimi, da’ quali esso imparassi e conoscessi questa arte che tanto li delettava. Seguinne che ’l giovane, aperto discernendo le infinite insidie e’ latenti lacci che s’adoperano giucando, revocò sé stessi e corresse tanto errore e più non giucò. Tu, giovane male esperto, per inconsiderazione credulo, pur prometti a te stessi buona e perpetua fortuna contro tante e sì artificiose falsità e tradimenti: portasti più somma tu solo che tutti gli altri, e così desti in preda te stessi a’ tuoi insidiatori. Dirai, in questa cosa può la fortuna; vincesi, perdesi, così passiamo tempo. Anzi perdete el tempo e voi stessi. Ma concedoti; pogniamo che tu perdendo perdi poco, e vincendo vinci più. La perdita, se bene raconterai, sarà e molta e spessa; la vincita, contro, rarissima. El mal tuo quale sussegue a poco a poco, tanto più nuoce quanto tu meno lo senti. Ultimo te n’avedrai, quando ti troverrai sanza quella somma allora utile, ora necessaria a’ bisogni tuoi, onde alienasti la possessione e resti indebitato. Non comparirai in publico, la casa tua ti sarà uno carcere, contristera’ti in solitudine, gli amici e noti antichi ti rifuteranno e aviliranno, e’ nimici ne saranno lieti e befferanti; tu da te stessi riceverai tormenti intollerabili, repetendo in questa miseria gli spassi, gli amici, lo onore e gli altri beni perduti per tua colpa e stoltizia, e forse per tedio di te stessi viverai errando per le selve, quasi come fiera per dolore furiosa. O miserabile condizione! Che vita sarà la tua? Chi comunicherà teco alcuna sua amministrazione o traffico? Qual de’ maggiori ti commetterà alcuna degna faccenda? Qual padre, non dico ti darà per moglie la figliuola, ma quando mai patirà che ’l figliuolo suo a te sia familiare? Certo miserabile condizione, da eleggere la morte per fuggirla. Ma pogniamo contro che ad alcuno di voi qualche volta la fortuna [p. 356 modifica]succeda in giuoco: vincesti. Furono subito le torme de’ tuoi seguaci seduttori: dàcci vincita; spendi in quella e quell’altra cosa superflua e lasciva. Vince domani quell’altro; pur simile fanno a lui. Non compie l’anno che, dissipata tutta la somma comune, indi a niuno resta un quattrino.

Francesco. Non basterebbe il dì a raccontare tutte le perversità e ruine che porge il gioco essecrabile! Uomini vilissimi, abiettissimi i giucatori! Vuolsi odiare il giuoco e lungi fuggire chi se gli dia.

Matteo. Udite, figliuoli, udite e così fate voi. Siete d’indole e presenza certo elegante, nobile, e in questo simili a’ vostri maggiori; d’ingegno pronto, d’intelletto acuto e da natura proni e parati a farvi amare e reputare. Donate a questa nostra età questo espettatissimo da voi e massimo gaudio e ultimo contentamento; eccitate voi stessi, dedicate l’animo a virtù, amate i buoni, pigliate gloria in voi stessi dei buoni costumi, imitate i vostri maggiori, da’ quali avete domestico essemplo per asseguire pari fama e nome; intraprendete buoni essercizii, seguite i degni studii, date opera di bene meritare di voi stessi, della famiglia vostra, della patria, faccendo come fecero i vostri maggiori, uomini religiosissimi, costumatissimi, ornatissimi di molta e singolare virtù.

Battista. Così farete, figliuoli. I buoni costumi danno dolce grazia a’ fanciulli, molta laude a’ giovani, ferma autorità agli uomini maturi, onoratissima dignità a’ più attempati. Ad ogni età e stato i costumi buoni sono ornamento e splendore di tutta la vita.