Maaza Mengiste
Maaza Mengiste (1971 – vivente), scrittrice etiope.
Citazioni
[modifica]- Gli uomini entravano dalla porta con una storia alle spalle, le donne – che pure avevano deciso di partire e fare le soldatesse – quando rientravano tornavano ad essere mogli e madri e molto spesso le loro vicende restavano sconosciute. Solo la cerchia femminile della famiglia le conosceva. Quindi all'inizio io conoscevo solo una o due vicende di donne impegnate nella lotta anticoloniale e grazie al lavoro di ricerca svolto per la stesura de Il Re Ombra ho scoperto che erano state migliaia.[1]
- Ho molti amici in Italia e mi sento come in famiglia. Detesto le stesse cose che detesto in America: per esempio il razzismo e l'ignoranza.[2]
- [Sulla pandemia di COVID-19] Potrebbe essere questo uno dei primi effetti del coronavirus e della quarantena. Restando chiusa, bloccata, ferma, la gente ha avuto occasione di riflettere. E il desiderio di cambiamento si è accresciuto.[3]
- Sono sopraffatta dalla tristezza se penso a chi rischia la morte per venire in Europa. Vengono a cercare una possibilità per vivere. All'epoca di Mussolini l'Etiopia era inizialmente vista come un rifugio per gli italiani poveri e disoccupati. L'invasione fu all'inizio una migrazione, gente che sperava di trovare una vita migliore. Spesso ci dimentichiamo questo lato della storia. Ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla povertà e dall'oppressione. Anche se nessuno ha il diritto di mandare i soldati a conquistare un altro Paese.[2]
Da Intervista all'autrice del pluripremiato romanzo "Beneath the Lion's Gaze"
Intervista di Cristina Ali Farah, Vogue.it, 15 luglio 2011
- Sono etiope americana e appartengo a due mondi, spesso la gente ha bisogno di definirti, non capisce che questi mondi sono inseparabili.
- Quando sono arrivata negli Stati Uniti perfezionare il mio inglese era un obiettivo, non era la mia prima lingua, ma dovevo imparare ad usarla per esprimermi e per entrare a far parte della società americana. Vivere in America come immigrata è stato difficile, parlavo bene l'inglese ma rimanevo sempre una straniera. Ho cominciato a scrivere per dare forma al mio immaginario, creare un mondo in cui le persone erano come me.
- Per me è molto importante creare protagonisti che siano allo stesso tempo fragili e dignitosi. Esiste lo stereotipo che gli africani non siano fragili, non sentano il dolore come lo sentono gli altri. La gente pensa che una madre africana non soffra se il figlio muore. I miei protagonisti sono combattuti, hanno decisioni difficili da prendere. Voglio mostrare come durante la guerra, nei momenti drammatici, la gente cerchi sempre di conservare la propria dignità. Quando si sentono per esempio le notizie sugli sbarchi, su ciò che sta accadendo in Libia, non si dovrebbe mai perdere di vista l'umanità delle persone.
- Avevo un'idea dell'Italia come paese molto accogliente, in cui si vive in modo rilassato. Quando sono arrivata ho visto che le persone, soprattutto a Roma, sono molto tese, preoccupate, direi frustrate. È per via della situazione politica, ma anche per i cambiamenti nel paese. Penso che anziché combattere l'immigrazione, la gente dovrebbe rendersi conto che ogni paese per crescere ha bisogno della diversità, di nuove idee, di un cambiamento per crescere. In Italia le persone coinvolte con il mondo dell'accoglienza sono gentili, generose, ma a volte lo sono in modo paternalista. È difficile la filosofia della carità. Aiutiamo il prossimo perché pensiamo che sia uguale a noi o perché lo consideriamo inferiore?
- La bellezza dell'Italia è la sua storia, il suo passato. Allo stesso tempo l'Italia deve cambiare per sopravvivere, non può conservare la sua identità. In America la storia è giovane, tutto è nuovo, tutto è in cambiamento. Anche in Etiopia si sente molto forte il peso della storia e l'Etiopia sta cambiando anche perché ci sono persone come me che sono cresciute all'estero e ritornano.
Da Maaza Mengiste & Nadifa Mohamed
Intervista di Warscapes.com, riportato in Ghibli.org, traduzione di Laura Maggi, 29 giugno 2012
- [Sull'Africa Orientale Italiana] L'epoca delle colonie è un brutto promemoria di quell'accondiscendenza. Ma quello che ho sentito ripetere da molti italiani è anche l'idea che loro siano stati "bravi" colonialisti. Non ti dico le volte in cui la prima cosa che mi sono sentita dire dalla gente riguardo quel periodo è: "hanno fatto molte cose buone laggiù. Hanno costruito strade e modernizzato il paese". [...] sono talmente stufa di sentirlo dire. Penso che se la situazione fosse capovolta, metterebbero in evidenza gli omicidi, gli stupri, i massacri, gli imprigionamenti e poi vediamo se le strade rimedierebbero a tutto questo.
- Gli italiani hanno sviluppato un sistema di segregazione razziale in Etiopia e nelle loro altre colonie prima che esistesse in Sud Africa. [...] A differenza degli inglesi e francesi che hanno insegnato le loro lingue nelle scuole delle colonie (nel bene e nel male) e fatto uso delle popolazioni indigene come parte del loro sistema di dominio nelle colonie, gli italiani hanno concesso solo tre anni di sistema scolastico e l'italiano insegnato nelle scuole fu deliberatamente imbastardito; una sorta di pidgin italiano con lo scopo di far apparire la gente dell'Africa orientale analfabeta quando parlava. Volevano che la cultura e la lingua italiana restasse "pura" per i soli italiani.
- Ciò che è interessante, riguardo la trasmissione orale della storia in Etiopia, è il senso diffuso che mentre Mussolini era cattivo e il Fascismo il male, gli italiani in sé non erano così male. Non ho sentito molti racconti dalla mia famiglia su quel periodo, ma da altri si evince un misto d'orrore per l'occupazione e di gentilezza da parte di quegli italiani che hanno deciso di rimanere dopo la guerra.
- In Etiopia ci sono persone che sono tanto lontane dalla carestia quanto le persone in Occidente. Conducono vite più simili alle famiglie di Chicago o Denver o New York, e vedono gli stessi nuovi filmati sulla carestia che vediamo sulla CNN o sulla BBC. Questa è un'arma a doppio taglio, perché credo che abbiamo una responsabilità verso le persone all'interno dei nostri confini e o dei nostri paesi. Ma il fatto è che è semplice per molti in Etiopia ignorare ciò che sta accadendo in altre parti del paese.
- [Sul buda] Anche in Somalia ci sono uomini che si sono potuti trasformare in iene? Li abbiamo anche in Etiopia!
Intervista di Laura Montanari, Firenze.repubblica.it, 11 giugno 2015
- Ho raccolto molte storie dell'occupazione italiana. Sono cresciuta ascoltando racconti di eroismo e coraggio davanti alle crudeltà. Ma man mano che crescevo capivo che c'erano cose lasciate fuori. L'Etiopia festeggiava i leader del suo esercito (la maggior parte provenivano da famiglie nobili) ma io volevo sapere dei soldati, dei poveri, dei contadini ignorati dalla storia. Per essere coraggiosi si deve anche provare paura. Dove sono le storie sulla paura? Il mio libro comincia da lì.
- [Sull'Italia fascista] Un Paese complicato che aveva bisogno di trovare uno sbocco, dare un posto ai suoi cittadini più poveri. È l'Italia di Mussolini che vuol credere a una grandezza predestinata ed è disposta a devastare un paese e la sua gente per il suo impero. Invierà i soldati a combattere e morire in suo nome, ma alcuni resteranno in Etiopia e sposeranno le donne che avrebbero dovuto uccidere.
- All'epoca di Mussolini l'Etiopia era inizialmente vista come un rifugio per gli italiani poveri e disoccupati. L'invasione fu all'inizio una migrazione, gente che sperava di trovare una vita migliore. Spesso ci dimentichiamo questo lato della storia.
Intervista di Stilos, riportato in Leggerealumedicandela.blogspot.com, 18 dicembre 2017
- [Sugli studenti durante la Guerra civile in Etiopia] Pensavano che, una volta che non ci fosse più Hailé Selassié, avrebbero avuto un governo di civili, che ci sarebbero state elezioni democratiche, che i militari al governo si sarebbero ritirati. Non avevano idea che il governo sarebbe diventato così violento e oppressivo. Erano giovani e idealisti.
- [...] durante l'occupazione italiana era frequente che gli ufficiali dell'esercito, o anche i civili, prendessero delle donne etiopi e le tenessero come serve e amanti, contro la volontà delle donne, naturalmente. Gli italiani venivano in Etiopia come civilizzatori e si comportavano come se l'Etiopia appartenesse a loro, come se sia l'Etiopia sia le sue donne fossero loro possesso.
- Nessuno vuole che altri occupino la propria terra, prendano il tuo paese e le tue donne. Però ci furono molti italiani che, anche finita l'occupazione, rimasero in Etiopia, ed erano accettati del tutto, non c'era animosità nei loro confronti. Individualmente erano gentili, ma è l'idea di colonizzare un altro paese che è violenta. C'erano però quelli che vedevano gli etiopi come esseri umani e non semplicemente come dei barbari. Gli etiopi non dimenticheranno mai Graziani e i gas velenosi- sono cose che fanno parte della nostra storia. Quello che ci rende aperti verso gli italiani è che noi non abbiamo mai rinunciato a lottare, noi ci vediamo come vincitori e quindi possiamo anche essere generosi nei confronti degli italiani.
- [Sulla Guerra civile in Etiopia] È quello che è successo in Etiopia: la gente era divisa in due parti, non c'era un'area grigia ed è stato quello che ha spaccato le famiglie e separato gli amici.
- Gli Stati Uniti vedono nell'Etiopia un alleato cristiano, un'isola in mezzo a paesi musulmani. Ma è necessario che si controlli che vengano rispettati i diritti umani e la libertà di stampa.
- Si parlano molte lingue in Etiopia, la principale è l'amarico, una lingua semitica che ha un alfabeto simile a quello ebraico. La questione della lingua è diventata una questione politica: ogni gruppo etnico vuole che venga riconosciuta la sua lingua, domanda perché si debba scegliere l'amarico, senza comprendere che la lingua unica è un collante. A scuola adesso si studia l'inglese.
Intervista di Raffaella De Santis, repubblica.it, 8 settembre 2021
- [...] sono state migliaia a combattere ma sui giornali dell’epoca venivano dedicati loro solo piccoli e insigificanti trafiletti. Le donne durante la guerra hanno subito ogni sorta di violenza. Per i nemici erano al pari dei territori da conquistare e depredare. Su loro poi è caduto il silenzio. Perfino nella mia famiglia non se ne era mai fatta menzione. Mia madre mi ha raccontato la storia della mia bisnonna soldato solo dopo aver letto il libro. Ero sconvolta, le ho detto: perché non me ne avevi mai parlato prima? Lei mi ha semplicemente risposto: tu non me lo hai mai chiesto. Ho realizzato solo allora che la storia delle donne era destinata alle chiacchiere private, era parte delle cosiddette “chiacchiere in cucina” di donne con altre donne. La storia ufficiale è fatta da uomini per altri gli uomini.
- [«Crede che gli italiani abbiano fatto davvero i contri con il colonialismo in Africa?»]
Durante le mie ricerche ho incontrato persone molto gentili e altre rudi, infastidite. In un mercatino napoletano avevo trovato in una bancarella vecchie foto coloniali. Il proprietario me le ha strappate di mano e mi ha intimato di andarmene. In una biblioteca romana è successo il contrario: uno dei bibliotecari porgendomi la pila dei documenti mi ha detto: mi dispiace per quello che abbiamo fatto. In Italia forse è mancata una narrazione popolare su quel periodo, una narrazione diffusa come quella che c’è stata in Sud Africa dopo l’apartheid. - Montanelli comprò una sposa ragazzina di 11-12 anni. In realtà non possiamo sapere con precisione l’età perché nei villaggi africani non si registravano le nascite. Ma la comprò, questo lo sappiamo. E la violentò più volte. sappiamo anche questo, è stato lui a raccontare che lei non voleva. [...] Da italiano Montanelli avrebbe potuto riconoscere i segni di quella crudeltà e discostarsene. Non lo fece perché condivideva evidentemente quella cultura patriarcale. Perché non mettere al posto della sua statua quella di una donna della Resistenza? In Italia vorrei vedere più statue di donne partigiane.
- A Firenze, dopo una presentazione [del libro Il re ombra], si è avvicinato un vecchio signore. Aveva in mano un ritaglio di giornale del 1936. Voglio mostrarti questo, mi ha detto. Mio padre, stato seppellito nella tua terra. Ho capito in questi anni che dietro quei soldati c’erano delle persone, con le loro famiglie, i loro affetti. E che quella è stata anche la loro guerra, non solo la mia
Lo sguardo del leone
[modifica]Un'esile vena azzurra pulsava nella pozza di sangue che si andava formando nel punto in cui il proiettile si era conficcato nella schiena del ragazzo. Hailu sudava sotto la luce intensa della lampada operatoria, un senso di oppressione dietro gli occhi. Chinò la testa di lato e una delle infermiere si affrettò a detergergli la fronte. Tornò a guardare il bisturi, il sangue lucicante e i lembi squarciati della ferita, e cercò di immaginare l'ardore che aveva indotto quel ragazzo a sentirsi più forte dell'agguerrita milizia dell'imperatore Hailè Selassiè.
Citazioni
[modifica]- Viviamo in una società feudale, Dawit. Il nostro paese sfrutta coloro che si ammazzano di fatica per vivere. L'imperatore ha creato il mito della sua terra grazie al sangue di quanti erano troppo stanchi per dar voce alle loro verità. (Mickey; p. 41)
- «I militari vogliono farci capire chi comanda. [...] Avete sentito che hanno cambiato nome? Sapete come si fanno chiamare?»
«L'ho scordato. Mi pare che non sia una parola amarica...» disse Kifle.
«Derg» disse Hailu. «Ora si chiamano Derg. Che significa "consiglio" in ge'ez».
«Che senso ha usare l'antica lingua dei preti per questa messinscena?» borbottò Kifle. (p. 62) - Il Derg aveva insediato un gran numero di tribunali militari, anche se le istruttorie erano condotte dalla magistratura ordinaria. I reati erano sempre gli stessi: corruzione, abuso di atti d'ufficio, dissimulazione della carestia. Il Derg aveva promesso che i processi si sarebbero svolti in modo ordinato e tempestivo. Ma Dawit non aveva immaginato che gli arresti potessero essere così numerosi. (p. 89)
- All'inizio il Derg aveva promesso una "rivoluzione incruenta", ma nei fatti si era rivelato efferato e sanguinario. Nonostante le rassicurazioni che giungevano dal quartier generale di Menelik Palace, la gente non si fidava più del regime militare. Nessuno credeva alla versione ufficiale, secondo la quale l'imperatore era morto per cause naturali. Non era un segreto che i cumuli di terra nei sobborghi della città fossero altrettante fosse comuni. E gli scontri a fuoco, le scaramucce fra soldati e contestatori, erano il segno di una ribellione che montava ogni giorno di più. Neppure il coprifuoco bastava a spegnere i tumulti, riportando il silenzio nelle notti dell'Etiopia. (p. 143)
- «Al diavolo i comitati!» esclamò Melaku. «Questo governo non fa che inventarsi comitati! Uno di questi giorni il Derg ci insegnerà a lavarci la schiena in modo socialista!» (p. 253)
Note
[modifica]- ↑ Citato in La memoria è un campo di battaglia, festivaletteratura.it, 7 settembre 2024.
- ↑ a b Da Etiopia, la guerra che nessuno ha vinto davvero, R.it, 11 giugno 2015.
- ↑ Citato in Anche l'Italia deve smettere di ignorare i crimini commessi in Africa, dice Maaza Mengiste, Linkiesta.it, 18 giugno 2020.
Bibliografia
[modifica]- Maaza Mengiste, Lo sguardo del leone, traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza Editore, 2010, ISBN 978-88-545-0359-5
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