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Angelo Del Boca

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Angelo Del Boca (1925 – 2021), giornalista, scrittore e storico italiano.

Citazioni di Angelo Del Boca

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  • [Il generale Pietro Maletti rinunciò] a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto — parole sue — "i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan".[1] (da Italiani, brava gente?[2])
  • Cadorna è stato per ventinove mesi il vero, indiscusso padrone dell'Italia. Nessuno, prima di lui e dopo di lui (Mussolini compreso), si è arrogato il diritto di vita e di morte su tutti gli abitanti della penisola. Disponeva, a suo piacimento, di uno degli eserciti più potenti del mondo, continuamente rafforzato con immani trasfusioni di sangue. Disponeva di propri tribunali di guerra, che imponevano la sua legge. Attraverso la censura militare metteva un bavaglio a combattenti e a civili. In accordo con Sidney Sonnino, poteva senza battere ciglio decretare la morte per fame di 100.000 prigionieri. Per finire, era l'uomo che non aveva il minimo imbarazzo nel diramare direttive di questo tenore: «Deve ogni soldato essere certo di trovare, all'occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi» (da Italiani, brava gente? Neri Pozza,, Vicenza, 2005, p. 67)
  • [Sul film Africa addio] Non c'è un istante, in due ore e mezzo di proiezione, in cui un africano sia innalzato alla dignità di uomo. Si sottolineano i particolari più disgustosi, i denti cariati, le bocche parte in atteggiamento ferino per passare con uno stacco allusivo alle fauci delle belve.[4]
  • Non dimentichiamoci che la sua vittoria alle ultime elezioni è stata contestata dall'opposizione dell'etnia Oromo che è maggioranza nel paese mentre lui appartiene a una minoranza, i Tigrini. Zenawi è sempre più fragile. Per questo non lo vedo cacciarsi in una guerra.[5]
  • Gli Stati Uniti, che hanno aiutato Zenawi fino ad oggi, potrebbero chiedergli di intervenire in Somalia. Si sa che l' America è molto preoccupata per l'avanzata di queste Corti Islamiche, che rappresenterebbero una possibile base per Al Qaeda.[5]
  • Andarsi a scontrare contro un gigante come l'Etiopia che ha settanta milioni di abitanti non ha senso. Anche l'Eritrea lo ha capito a sue spese.[5]
  • Per la Somalia vedo soltanto un futuro di guerra civile, come è stato per gli ultimi quindici anni, ma non estesa a tutto il Corno d' Africa. A meno che non entrino in gioco interessi superiori internazionali.[5]

Da Dalla guerra nell'Ogaden alla battaglia per Mogadiscio

Studi piacentini, 1991, 9, 1:35-100

  • [Sulla Guerra dell'Ogaden] Aggredita a nord dagli eritrei e a sud dai somali e minata al centro da una furibonda lotta per il potere, l'Etiopia andava alla deriva, incapace da sola di reagire ai colpi che le venivano inferti. Fu a questo punto che, in risposta ad un disperato appello del Derg etiopico, l'Unione Sovietica intervenne nel conflitto, coinvolgendo anche Cuba. Il 22 gennaio 1978, dopo essere stato rifornito di armi con un gigantesco ponte aereo e rafforzato da truppe scelte cubane, l'esercito etiopico passava alla controffensiva sotto la direzione di generali sovietici. E in meno di due mesi, dopo aver battuto duramente le forze somale, soprattutto nella piana di Giggiga, le costrinse alla ritirata da tutto l'Ogaden. Il disastro per Mogadiscio avrebbe potuto essere anche di più vaste proporzioni se non fosse intervenuto un accordo fra Mosca e Washington che consentiva ai resti dell'esercito somalo di salvarsi dall'accerchiamento e dalla distruzione e di mettersi in salvo in Somalia. Sempre in base all'accordo sopraccitato, gli etiopici rinunciavano al diritto all'inseguimento.
  • Gli effetti devastanti dell'avventura somala nell'Ogaden indussero Siad Barre a compiere, tra il 1978 e il 1982, alcune scelte ideologiche e di campo, non sempre coerenti e sovente di facciata. Così, mentre con il congresso straordinario del Somali Revolutionary Socialist Party (SRSP) ribadiva che la scelta socialista era ormai irreversibile, con l'accordo siglato a Washington il 21 agosto 1980 concedeva in affitto alla nazione più capitalista del mondo la base aeronavale di Berbera. E mentre rilanciava lo slogan «il socialismo unisce, il tribalismo divide», in realtà, sotto i primi colpi dell'opposizione armata, si trincerava sempre di più nella propria fortezza clanica non fidandosi che dei Marrehan. In effetti tutti i mutamenti che si sono verificati dopo il 1978 hanno più il marchio delle concessioni formali che di un aumento significativo della sovranità popolare. Siad Barre metteva soltanto in pratica quella «strategia della sopravvivenza», di cui si era rivelato anche in precedenza un maestro.
  • Che la Somalia fosse già, all'inizio degli anni '80, e anche prima, uno Stato di polizia, era noto a tutti. Che le sue carceri fossero sovraffollate e agghiaccianti non era un mistero per nessuno. Che fosse stata inclusa nella lista nera di Amnesty International era altrettanto noto. Che il suo regime fosse, infine, corrotto e inaffidabile, era di dominio pubblico. La Somalia di Siad Barre, dunque, godeva di una pessima reputazione e se c'era una nazione al mondo che, più delle altre, doveva possedere le prove delle iniquità del regime somalo, questa era l'Italia.
  • La guerra del Golfo, vissuta in diretta sugli schermi televisivi dall'intero pianeta, annullava, con la sua straordinaria ricchezza di mezzi di sterminio, la guerra fra poveri che si combatteva in Somalia. Una guerra, peraltro, non meno sanguinosa di quella del Golfo anche se combattuta con vecchie armi scartate da altri eserciti.
  • Sull'utilità dell'opera di mediazione italiana si possono nutrire molti dubbi. Intanto va detto che avrebbe avuto più credibilità se fosse stata condotta da diplomatici non compromessi con il regime di Siad Barre e capaci di un linguaggio nuovo, più persuasivo.

L'Unità, 20 febbraio 2000

  • La grande guerra di Hailè Selassiè è stata fatta per questa ragione, per i porti eritrei che l'Etiopia perse solo all'ultimo. Ma non si tratta solamente di questo è chiaro che è in gioco l'egemonia nell'area.
  • Il Sudafrica controlla le economie dei paesi vicini. Solo il 2% del commercio mondiale riguarda l'Africa e il Sudafrica controlla la metà degli scambi.
  • Zenawi era stato accusato di aver ceduto agli eritrei solo perché questi ultimi lo avevamo aiutato nella guerra contro Menghistu e così ha ceduto per poter governare.
  • [Sulla Guerra Etiopia-Eritrea] Non si tratta di una guerra intertribale come poteva essere quella nel Biafra all'interno della Nigeria, ma di una guerra dichiarata combattuta con grandi mezzi, cannoni, carri armati. È la prima guerra africana combattuta con metodi europei.

L'Unità, 14 maggio 2000

  • La maggioranza degli etiopici non ha visto di buon occhio la separazione dall’Eritrea e la perdita dei porti di Massawa e Assab e Zenawi, in difficoltà, sta cercando di ottenere appoggi.
  • Non è un conflitto simile a quella che abbiamo visto in passato in Etiopia ed oggi in Sierra Leone, non c’è guerriglia, ma guerra di posizione come in Africa non si era mai visto. Sia Zenawi che Afeworki, con i loro nazionalismi, stanno dando un cattivissimo esempio a tutta l’Africa, sono stati mobilitati 600.000 uomini nelle trincee.
  • La gran parte delle armi arriva dalla Russia. Se si blocca da una parte, le armi arrivano dall’altra. In una guerra come questa vengono utilizzati grandi quantitativi esplosivi e i mercanti d’armi le benedicono, forse sono loro a soffiare sul fuoco.

L'Unità, 31 luglio 2005

  • Stiamo parlando di un Paese che da 13 anni non ha un governo, non ha più nulla, è un autentico “deserto”. Per questo motivo è l’ambiente più adatto per creare scuole di terrorismo come è già stato più volte accertato.
  • La storia della crisi della Somalia nasce con la caduta di Siad Barre nel 1981: da allora si sono fatti diversi tentativi di riportare la legalità in Somalia: non dimentichiamo la missione appoggiata anche dall’Onu, la Restore Hope, che purtroppo, nonostante avesse mobilitato oltre 30mila soldati, è fallita miseramente. Da allora si sono fatti tentativi di riconciliazione non più militari ma politici. Siamo arrivati al quattordicesimo tentativo che ha portato alla indicazione di un presidente, un governo e un parlamento. Peccato che però non possono operare nel paese e vivono in un albergo di Nairobi. La Somalia è come si fosse staccata dal Continente africano e andasse alla deriva nell’Oceano indiano.
  • Il fatto è che la Somalia era e resta un coacervo di clan in lotta da sempre. E in questa lotta Al Qaeda si è incuneata stabilendo legami ideologici e operativi con i gruppi più legati all’Islam radicale.

L'Unità, 14 agosto 2010

  • Tra il 1974 e il 1991 l'Etiopia conobbe il suo periodo più infausto, tanto da far impallidire le sanguinose scorrerie di Gragne, detto il Mancino, e la stessa brutale aggressione dell'Italia fascista. Il colpo di Stato, operato dai militari del Derg, che avrebbe dovuto far crollare l'antico impero di Hailè Selassié, giudicato troppo lento nel realizzare le necessarie riforme, in realtà non generava affatto libertà e democrazia, ma soltanto un nuovo ordine contrassegnato dalle peggiori brutalità e da una guerra civile che avrebbe spento intere generazioni.
  • Dapprincipio il suo solo scopo è quello di far ricadere l'intera responsabilità dell'atroce carestia che ha devastato il paese sull'imperatore Hailè Selassiè, e quando si accorge che è impossibile demolire l'immagine del Negus, lo sopprime soffocandolo con un cuscino.
  • Di recente, ad Addis Abeba, lo hanno condannato a morte, in contumacia, ma questa sentenza non sana alcuna piaga. Ha soltanto il sapore di un'assurda ed atroce beffa.

Il Negus

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  • [Su Menghistu Hailè Mariàm] Era lui che il 23 novembre 1974, nel cortile della prigione di Akaki, aveva aperto il fuoco per primo per sterminare i 60 massimi dignitari dell'impero. Era lui che, il 3 febbraio 1977, aveva abbattuto con raffiche di mitra il capo provvisorio dello Stato, generale Taferi Bante. Era lui che aveva deciso l'eliminazione di un altro rivale, Atnafu Abate, e che, in nome del socialismo, aveva distrutto gran parte dell'intellighenzia etiopica progressista. (p. 9)
  • [Sul rapporto tra Haile Selassie e ligg Iasù] Fra i due giovani, pur cresciuti insieme alla Corte di Menelik, non c'era mai stata una grande simpatia. Erano troppo diversi, fisicamente e intellettualmente, per intendersi: Ligg Jasu era alto, forte, con lineamenti belli e regolari, mentre Tafari era piccolo, gracile, con un naso rilevante che, con gli anni, si sarebbe fatto sempre più adunco. Il primo era un perfetto cavaliere, un eccellente atleta e aveva un debole per le donne e l'idromele. Il secondo amava le buone letture e avrebbe avuto una sola donna nella vita, l'imperatrice Menen. Ligg Jasu era indeciso fra il cristianesimo e l'islam, tanto che sarebbe stato accusato di essersi convertito alla religione del Profeta. Tafari, al contrario, era uno scrupoloso osservante della fede dei suoi padri. Infine, Ligg Jasu amava il potere, ma non sopportava di esercitarlo all'interno del Ghebì, che sentiva stretto come una gabbia. Tafari era invece affascinato dal Ghebì, dal suo complicato cerimoniale, dai simboli del potere, dalla stessa corte dei miracoli che lo popolava. (p. 35)
  • Secondo il documento segreto compilato in occasione della sua deposizione, l'imperatore si era convertito all'islam e le prove, a riguardo, erano schiaccianti: si era unito in matrimonio con quattro donne, precisando che il Corano glielo consentiva; aveva costruito una moschea a Giggiga con i fondi dello Stato; era stato visto pregare in una moschea indossando abiti e turbante musulmani; sul copricapo delle sue guardie del corpo aveva fatto ricamare la scritta «non c'è altro Dio all'infuori di Allah»; aveva infine convocato ad Harar i più importanti sceicchi della regione per convincerli, tavole genealogiche alla mano, che egli discendeva direttamente dal profeta Maometto. (p. 37)
  • Da quel poco che Ligg Jasu è riuscito a realizzare nel suo breve e contestato regno si ricava invece l'impressione che egli abbia cercato di eliminare le ingiustizie più evidenti ponendo sullo stesso piano tutti i popoli dell'impero. (pp. 38-39)
  • Hailè Selassiè non aveva mai molto amato l'Africa, anzi si può dire che sino al 1955 l'avesse quasi ignorata. Del resto, non era un mistero per nessuno che la classe dominante etiopica non si considerasse affatto africana, ma indo-europea. (p. 235)
  • [Sull'appoggio di Amhà Selassié per il Colpo di Stato in Etiopia del 1960] Su questo episodio non è mai stata fatta chiarezza. Asfa Wossen dirà più tardi di aver letto il proclama alla radio mentre un ufficiale ribelle gli teneva puntata una pistola alla tempia. Ma l'ufficiale in questione, capitano Asrat Deferresu, smentirà molti anni dopo questa circostanza precisando che il principe ereditario non aveva opposto alcun rifiuto all'invito degli insorti. Comunque siano andate le cose, Asfa Wossen annunciava al popolo etiope la fine della tirannide e l'inizio di una nuova era, di libertà e di benessere. (p. 252)
  • [Sul fallimento del Colpo di Stato in Etiopia del 1960] Troppe forze, nel paese, erano ancora contrarie ai cambiamenti radicali: non soltanto l'esercito, saldamente in pugno a uomini devoti all'imperatore, e la Chiesa copta, che si era affrettata a condannare i «traditori», ma lo stesso popolo etiopico, che pure soffriva in silenzio. Germamè Neway si era illuso che i tempi fossero maturi per la rivolta ed era uscito allo scoperto, innalzando pateticamente, lo stendardo della rivoluzione. In questo errore non cadranno, tredici anni dopo, i militari del Derg, i quali agiranno con un'esasperante gradualità servendosi persino dell'imperatore per svuotare il regime sino a farlo morire. (p. 255)
  • Il principe [Amhà Selassié] non sarebbe stato coinvolto nell'inchiesta sul fallito colpo di Stato e gli sarebbe stata risparmiata la vergogna di sedere in tribunale accanto agli altri imputati, ma i suoi rapporti con il padre, già difficili fino a quel momento, si sarebbero compromessi definitivamente. (p. 257)
  • Il colpo di Stato era fallito, ma le idee che lo avevano originato continuavano inesorabilmente a circolare e nessuno sarebbe più riuscito a sradicarle dalle coscienze. L'Etiopia aveva superato decine di complotti negli ultimi cinquant'anni, ma quello del dicembre 1960 era il solo ad aver avuto un chiaro contenuto ideologico, avanzando una proposta autenticamente riformatrice e rivoluzionaria. (p. 258)
  • L'eredità dei fratelli Neway e di Workeneh Gebeyehu sarebbe stata raccolta dalla generazione più giovane, quella che sedeva ancora nei banchi delle scuole, che non aveva ancora sperimentato le attrattive e le delusioni del shum-shir imperiale e che guardava alla rinascita dell'Africa come a un momento sublime che non avrebbe potuto non riguardare anche l'Etiopia. (p. 258)
  • La rivolta del 13 dicembre 1960, dunque, non era stata come le altre. Anche se era fallita, la carica di proteste e di speranze di cui era portatrice non si era esaurita. Molti in Etiopia lo avevano capito e, a seconda della loro posizione sociale, avevano esultato oppure trepidato. Chi invece sembrava non aver capito nulla della lezione del 13 dicembre era proprio l'imperatore. (p. 259)
  • Il colpo di Stato in Eritrea, meditato da Hailè Selassiè sin dal giorno in cui aveva ratificato ad Addis Abeba l'atto federale, era tanto più grave in quanto in palese contraddizione con la politica che egli aveva inaugurato, a partire dalla seconda metà degli anni '50, nei confronti del continente africano e dei paesi non allineati. In poco tempo si era conquistato una solida reputazione di «pelegrino della pace», predicando l'unità degli africani, la moderazione, la concordia, le virtù del negoziato, e condannando severamente l'impiego della forza come mezzo di risoluzione delle controversie e intervenendo più volte come abile, ostinato e fortunato mediatore. Ma questa volontà di conciliazione, che egli manifestava nei riguardi di tutti i problemi esterni all'Etiopia, evidentemente non doveva ritenerla valida per le questioni interne dell'interne dell'impero, se è vero che egli decideva di rispondere con la repressione alle richieste di autonomia prima degli eritrei e poi dei somali, degli oromo e dei sidamo. (p. 274)
  • Se il problema eritreo angustiava l'imperatore, Asserate Kassa, che lo viveva giorno dopo giorno, ne era ancor più angosciato. (p. 307)
  • Il programma di Endelcacciù Maconnen, pur essendo corposo e innovativo, giungeva troppo tardi e si rivelava incapace di bloccare le manifestazioni popolari e gli ammutinamenti dei militari, che continuavano per tutto il mese di marzo e oltre, coinvolgendo persino gli strati inferiori della gerarchia ecclesiastica. (p. 319)
  • Mentre Endelcacciù Maconnen, per poter governare, si mostrava disposto a sacrificare tutti gli uomini del vecchio regime, diventando in pratica una marionetta nelle mani dell'esercito, l'imperatore stava a guardare e non sembrava particolarmente scosso dagli avvenimenti. (p. 320)
  • Per Asserate Kassa, dunque, era la vecchiaia che impediva ad Hailè Selassiè di valutare con la prontezza e la lucidità di un tempo una situazione estremamente intricata e con aspetti del tutto inediti. Vivendo più nel passato che nel presente, più nel sogno che nella realtà, gli si era sicuramente difficile affrontare avversari astuti ed aggressivi, che per di più non avevano un nome, non avevano un volto, non potevano essere comprati o promossi con il collaudato sistemo dello shum-shir, non potevano nemmeno essere liquidati fisicamente. E anche la loro tecnica era nuova per l'Etiopia. Memori degli errori commessi nel dicembre del 1960, essi tendevano a non abbattere subito l'imperatore. Volevano anzi sfruttarne ancora l'autorità e il carisma per indebolire il regime, e nello stesso tempo gli facevano intorno il vuoto, per isolarlo e renderlo inoffensivo; il tutto senza correre il rischio di scatenare una guerra civile. (pp. 322-323)
  • [Su Asrate Kassa] Esattamente come il padre ras Kassa Hailù - che era l'erede in linea diretta del capostipite della dinastia scioana, re Sahle Selassie - egli aveva sempre preferito esercitare il ruolo di «creatore di re» piuttosto che quello di «aspirante al trono». (p. 330)

Hailè Selassiè ha sicuramente commesso molti errori durante il suo lunghissimo regno, prima fra tutti quello di essere stato sempre in bilico tra riforma e conservazione, senza mai operare una scelta risolutiva. Ma la rivoluzione che lo ha travolto nel nome della libertà e del progresso, si è rivelata cento volte più infausta del suo regime; ha causato all'Etiopia danni irreparabili; l'ha sprofondata in quella guerra civile che Hailè Selassiè aveva sempre cercato di scongiurare; ha accelerato, anziché bloccare, il processo di disintegrazione del paese. [...] Qualunque sia il giudizio definitivo su Hailè Selassiè, la sua figura merita rispetto e considerazione. È impossibile non provare un sentimento di grande ammirazione e di riconoscenza verso l'uomo che il 30 giugno 1936, dalla tribuna ginevrina della Società delle Nazioni, denunciava al mondo i crimini del fascismo e avvertiva che l'Etiopia non sarebbe stata che la prima vittima di quella funesta ideologia. Per questo suo messaggio, malauguratamente non ascoltato, gli siamo un po' tutti debitori. (p. 336)

Gli italiani in Africa orientale I. Dall'unità alla marcia su Roma

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  • Sin dall'inizio del suo regno [...] Teodoro si sforza di riportare l'ordine nel paese devastato da un secolo di guerre e di dargli un assetto più moderno con una serie di riforme sociali e amministrative. Memore delle discordie fra i prìncipi, egli cerca innanzitutto di sostituire i grandi feudatari con governatori di nomina imperiale e ligi al potere centrale. Con la stessa Chiesa copta, che gode di privilegi immensi e sazia, in una terra di miserabili, centinaia di migliaia di chierici e di monaci parassiti, non ha riguardi e presto decide di incamerarne i beni accumulati lungo i secoli. (p. 9)
  • [Su Taitù Batùl] Donna di rara intelligenza e di grande energia, non deluderà Menelik né i suoi sudditi. Non solo diventerà il più ascoltato consigliere del re scioano, ma sarà spesso al suo fianco nelle campagne militari con un comando effettivo di truppe. [...] Verrà considerata al momento dell'attrito con l'Italia, come l'avversaria più temibile e crudele. (p. 142)
  • Con la conquista dei paesi galla, di parte degli Arussi ed ora anche dell'Harrarino, il regno di Menelik equivale ormai in superficie a quello di Johannes, ma è molto più ricco e popolato e tale da poter mantenere un esercito più potente. (p. 228)
  • [Sulla battaglia di Adua] La realtà è che brucia terribilmente agli italiani di essere stati battuti da un popolo che hanno sempre considerato barbaro, incapace, inetto, militarmente fiacco, inadatto a sfruttare le moderne tecnologie, e avallano ogni genere di panzane nella speranza di salvare un minimo di prestigio. Invece gli abissini, non soltanto hanno saputo vincere da soli, senza l'apporto «tecnico» di nessuno, ma dopo la vittoria sanno anche agire con prudenza, con moderazione, con lungimiranza per non guastare un successo che è costato tanto sangue. (pp. 699-700)
  • Con Adua ha voltato una pagina della storia, ha messo in moto un meccanismo che non si arresterà più, ha riacceso focolai del nazionalismo africano che sembravano spenti per sempre, ha intaccato i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra, ha inferto un colpo mortale all'imperialismo contemporaneo e ai protocolli di Berlino. (p. 701)

Note

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  1. La citazione si riferisce alla strage di Debrà Libanòs che seguì l'attentato contro il viceré italiano ad Addis Abeba, Rodolfo Graziani.
  2. Citato in Gian Antonio Stella, E Graziani massacrò i monaci etiopi, Corriere della Sera, 18 febbraio 2017, p. 45.
  3. Citato in Romano Bracalini, Vittorio Emanuele III il re "vittorioso", I edizione Oscar Biografie e storia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987, ISBN 88-04-29770-0, cap. XVIII, p. 233.
  4. Citato in Sansonna Giuseppe, Hollywood sul Tevere. Storie scellerate, Minimum Fax, Roma, 2016.
  5. a b c d Citato in L'offensiva è solo all'inizio: le Corti islamiche avanzeranno, La Repubblica, 21 luglio 2006.

Bibliografia

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  • Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
  • Angelo Del Boca, Il Negus, Editori Laterza, 2007.
  • Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale I. Dall'unità alla marcia su Roma, Oscar Mondadori, 2015.

Altri progetti

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